domenica 29 novembre 2009

Crateri di luce - 28 novembre 2009

Intervento, il 28 novembre del 2009, a Milano, al Simposio “La poesia, il sacro, il sublime”.

Tomaso Kemeny Crateri di luce


The temple is holy
because it is not for sale
Ezra Pound, Canto XCVII




Sostengo che la scrittura del sublime non sia traducibile, essendo custodita nella stesura linguistica originale. Come si evince dallo Pseudo-Longino: “Il pathos e il sublime del linguaggio per la loro lucentezza prevalgono sempre sulle figure, ne adombrano l’artificio, badano a tenerle celate”(1). Di fatti il sublime, inteso come effetto esaltante della pratica poetico-artistica e del confronto con le forze della natura e con le figure ineffabili della trascendenza mitico-religiosa, non può venire felicemente ridotto a oggetto di conoscenza rigorosa, può invece essere tenuto in massimo conto nell’elaborazione di uno o più modelli esistenziali atti a mutare la nostra vita individuale o a definire tipologie soggettive tendenti verso il sublime.
“Mea parvitas”, è venuto il momento per delineare alcune pratiche compositive che, inverandosi in configurazioni, orientano verso il sublime. Ma si può dire da dove viene il sublime? Forse nella nostra cultura nasce dalle configurazioni analogico-naturali dell’Eterno.
Si veda, per es., nell’Antico Testamento (2) quando Dio si manifesta al profeta Elia come “un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce…ma il Signore non era nel vento”; come “un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto”, come “un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco…”. Qui le configurazioni si articolano evocando per difetto il lampeggiare del Divino nel mondo. Così il sublime creaturale si manifesta come sentimento del proprio annullamento inesorabile e dolce. Di fatti, dopo l’epifania del fuoco, Elia intende “un mormorio di un vento leggero…ed ecco sentì una voce che gli diceva ?Che fai qui Elia?”(3).
La scrittura nel Testo Sacro si manifesta nella terrificante forza di una parola il cui contenuto iconico si azzera secondo l’interdetto elaborato dall’antica cultura religiosa ebraica, parola che rinvia all’inaccessibile significato dell’Essere, e trova il proprio limite esplicito nell’ineffabile diversità assoluta di Dio. Il fenomeno straordinario dell’oltrepassamento del sensibile viene invece nominato da Longino quando osserva che “agli slanci dell’osservazione e del pensiero umano l’universo intiero è insufficiente, perché anzi la nostra mente spesso eccede i limiti del creato”. (4)
Nei sistemi artistici del classicismo e dell’arte medioevale, il sublime si manifesta come vetta più alta dello stile. Qui le configurazioni riproduttive elevano gli stereotipi iconici della coscienza epocale oltre i limiti raffigurabili dall’immaginazione. Nei testi codificati come poetici, la pratica riproduttiva si intensifica per qualificazioni per eccesso e per difetto del percepibile. Il sublime così si manifesta come momento più intenso della bellezza oggettiva.
Nei Trionfi Petrarca nella sezione Trionfo della Morte raffigura il pallore mortale di Laura (estinta dalla peste) come un candore dell’incarnato eccedente il raffigurabile: “Pallida no, ma più che neve bianca”(v.166). La differenza tra il pallore immaginabile e quello ideale conferisce alla amata defunta una assoluta singolarità. Questa qualificazione per eccesso viene, nel v. 169, bilanciata da una qualificazione per difetto: “Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi.” L’elevazione culmina nell’ultimo verso della sezione citata: “Morte bella parea nel suo nel viso”, dove la morte, qualificata come bella, risulta come travolgente metamorfosi se collegata ai vv. 31 – 34 della stessa sezione in cui la Morte allegoricamente personificata viene rappresentata come “…una donna involta in veste negra/ con un furor qual io non so se mai/al tempo dei giganti fusse a Flegra…” dove Flegra si riferisce alla località della Tessaglia dove Zeus combatté con i giganti. Il furore desolante e smisurato della Morte in “Morte bella nel suo bel viso”, svanisce come minaccia alla bellezza tesa verso l’eternità, nel viso di Laura. Il chiasmo “Morte bella…bel viso” (Ab…ba) incornicia il verso, come per riscattare l’amata dagli orrori della fenomenologia della morte effettuale.
I poeti e artisti romantici inaugurano la pratica delle configurazioni trasfiguranti, ove il sublime appare in un dettato radicalmente tragico per le molteplici scissioni che impone. Per sottolineare la difficoltà da affrontare nel conseguire l’effetto desiderato, i romantici evocano il “momento disforico dell’impedimento”. Vediamo come P. B. Shelley (5) dopo un passaggio “disforico” evochi una trionfale euforia: “The winged words in which my soul would pierce/Into the height of Love’s rare Universe,/Are the chains of lead around its flight of fire…/” (“Le parole alate in cui l’anima mia soleva elevarsi/nelle altezze dell’Universo raro dell’Amore/sono catene di piombo intorno al suo volo di fuoco…”). Di fatti dopo un primo tempo di passaggio “disforico” da “parole alate” alla metafora di secondo grado “catene di piombo”, le due trasfigurazioni del termine “parola”, dalla grazia inventiva allo svanire delle tracce dell’ispirazione creatrice nelle definitive figure verbali, producono l’ostacolo necessario per un secondo tempo in cui la metafora “flight of fire” (“volo di fuoco”) enuncia con “euforia” vertiginosa l’anima del poeta ammutolita nelle fiamme della passione che l’ha mossa. La significata scissione della materia verbale, viene contraddetta da configurazioni sonore per assonanza in “height/ fire” e per rima interlineare in posizione asimmetrica in “height/flight”. E così il materiale nelle configurazioni trasfiguranti porta la mente oltre i limiti dell’Universo visibile, là dove regna la musica, incontrastata.
Il pensiero-sentimento del sublime viene sinteticamente espresso da uno dei maggiori poeti della modernità, Ugo Foscolo: “E la fantasia del mortale…vola oltre le dighe dell’oceano, oltre le fiamme del sole; edifica regioni celesti, e vi colloca l’uomo e gli dice Tu passeggerai sovra le stelle e così lo illude, e gli fa obliare che la vita fugge affannosa, e che le tenebre eterne della morte gli si addensano intorno; e lo illude sempre con l’armonia e l’incantesimo della parola”.(6)
Chiudo, per non sottrarmi al confronto, con una mia composizione, dal titolo significativo, Alla parola:

La parola sorse
da crateri di luce
e creò un mondo sradicato
dal proprio principio, fino
alla fine dei tempi irripetibile.
Ma tu ascolta
solo la parola che scaturisce
dalle fenditure del tempo
e trapela dai circuiti del silenzio
nel medesimo fremito celando
carne e polvere.

………………………….
NOTE

1. Pseudo-Longino, Il Sublime, 17.3 (a cura di G. Lombardo, postfazione di H. Bloom), Palermo, Aesthetica editrice, 1987, p. 48.
2. Cf. 1 Re, 19, 11 – 12
3. ibid., 19,13
4. Pseudo-Longino, cit., 35.3, p. 60
5. P. B. Shelley, Epipsychidion, vv. 588 – 590
6. U. Foscolo, Opere, Tomo III, a cura di F. Gavazzeni, Milano, Classici Ricciardi-Mondadori. 1996, p. 1288.

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