domenica 29 novembre 2009

Crateri di luce - 28 novembre 2009

Intervento, il 28 novembre del 2009, a Milano, al Simposio “La poesia, il sacro, il sublime”.

Tomaso Kemeny Crateri di luce


The temple is holy
because it is not for sale
Ezra Pound, Canto XCVII




Sostengo che la scrittura del sublime non sia traducibile, essendo custodita nella stesura linguistica originale. Come si evince dallo Pseudo-Longino: “Il pathos e il sublime del linguaggio per la loro lucentezza prevalgono sempre sulle figure, ne adombrano l’artificio, badano a tenerle celate”(1). Di fatti il sublime, inteso come effetto esaltante della pratica poetico-artistica e del confronto con le forze della natura e con le figure ineffabili della trascendenza mitico-religiosa, non può venire felicemente ridotto a oggetto di conoscenza rigorosa, può invece essere tenuto in massimo conto nell’elaborazione di uno o più modelli esistenziali atti a mutare la nostra vita individuale o a definire tipologie soggettive tendenti verso il sublime.
“Mea parvitas”, è venuto il momento per delineare alcune pratiche compositive che, inverandosi in configurazioni, orientano verso il sublime. Ma si può dire da dove viene il sublime? Forse nella nostra cultura nasce dalle configurazioni analogico-naturali dell’Eterno.
Si veda, per es., nell’Antico Testamento (2) quando Dio si manifesta al profeta Elia come “un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce…ma il Signore non era nel vento”; come “un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto”, come “un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco…”. Qui le configurazioni si articolano evocando per difetto il lampeggiare del Divino nel mondo. Così il sublime creaturale si manifesta come sentimento del proprio annullamento inesorabile e dolce. Di fatti, dopo l’epifania del fuoco, Elia intende “un mormorio di un vento leggero…ed ecco sentì una voce che gli diceva ?Che fai qui Elia?”(3).
La scrittura nel Testo Sacro si manifesta nella terrificante forza di una parola il cui contenuto iconico si azzera secondo l’interdetto elaborato dall’antica cultura religiosa ebraica, parola che rinvia all’inaccessibile significato dell’Essere, e trova il proprio limite esplicito nell’ineffabile diversità assoluta di Dio. Il fenomeno straordinario dell’oltrepassamento del sensibile viene invece nominato da Longino quando osserva che “agli slanci dell’osservazione e del pensiero umano l’universo intiero è insufficiente, perché anzi la nostra mente spesso eccede i limiti del creato”. (4)
Nei sistemi artistici del classicismo e dell’arte medioevale, il sublime si manifesta come vetta più alta dello stile. Qui le configurazioni riproduttive elevano gli stereotipi iconici della coscienza epocale oltre i limiti raffigurabili dall’immaginazione. Nei testi codificati come poetici, la pratica riproduttiva si intensifica per qualificazioni per eccesso e per difetto del percepibile. Il sublime così si manifesta come momento più intenso della bellezza oggettiva.
Nei Trionfi Petrarca nella sezione Trionfo della Morte raffigura il pallore mortale di Laura (estinta dalla peste) come un candore dell’incarnato eccedente il raffigurabile: “Pallida no, ma più che neve bianca”(v.166). La differenza tra il pallore immaginabile e quello ideale conferisce alla amata defunta una assoluta singolarità. Questa qualificazione per eccesso viene, nel v. 169, bilanciata da una qualificazione per difetto: “Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi.” L’elevazione culmina nell’ultimo verso della sezione citata: “Morte bella parea nel suo nel viso”, dove la morte, qualificata come bella, risulta come travolgente metamorfosi se collegata ai vv. 31 – 34 della stessa sezione in cui la Morte allegoricamente personificata viene rappresentata come “…una donna involta in veste negra/ con un furor qual io non so se mai/al tempo dei giganti fusse a Flegra…” dove Flegra si riferisce alla località della Tessaglia dove Zeus combatté con i giganti. Il furore desolante e smisurato della Morte in “Morte bella nel suo bel viso”, svanisce come minaccia alla bellezza tesa verso l’eternità, nel viso di Laura. Il chiasmo “Morte bella…bel viso” (Ab…ba) incornicia il verso, come per riscattare l’amata dagli orrori della fenomenologia della morte effettuale.
I poeti e artisti romantici inaugurano la pratica delle configurazioni trasfiguranti, ove il sublime appare in un dettato radicalmente tragico per le molteplici scissioni che impone. Per sottolineare la difficoltà da affrontare nel conseguire l’effetto desiderato, i romantici evocano il “momento disforico dell’impedimento”. Vediamo come P. B. Shelley (5) dopo un passaggio “disforico” evochi una trionfale euforia: “The winged words in which my soul would pierce/Into the height of Love’s rare Universe,/Are the chains of lead around its flight of fire…/” (“Le parole alate in cui l’anima mia soleva elevarsi/nelle altezze dell’Universo raro dell’Amore/sono catene di piombo intorno al suo volo di fuoco…”). Di fatti dopo un primo tempo di passaggio “disforico” da “parole alate” alla metafora di secondo grado “catene di piombo”, le due trasfigurazioni del termine “parola”, dalla grazia inventiva allo svanire delle tracce dell’ispirazione creatrice nelle definitive figure verbali, producono l’ostacolo necessario per un secondo tempo in cui la metafora “flight of fire” (“volo di fuoco”) enuncia con “euforia” vertiginosa l’anima del poeta ammutolita nelle fiamme della passione che l’ha mossa. La significata scissione della materia verbale, viene contraddetta da configurazioni sonore per assonanza in “height/ fire” e per rima interlineare in posizione asimmetrica in “height/flight”. E così il materiale nelle configurazioni trasfiguranti porta la mente oltre i limiti dell’Universo visibile, là dove regna la musica, incontrastata.
Il pensiero-sentimento del sublime viene sinteticamente espresso da uno dei maggiori poeti della modernità, Ugo Foscolo: “E la fantasia del mortale…vola oltre le dighe dell’oceano, oltre le fiamme del sole; edifica regioni celesti, e vi colloca l’uomo e gli dice Tu passeggerai sovra le stelle e così lo illude, e gli fa obliare che la vita fugge affannosa, e che le tenebre eterne della morte gli si addensano intorno; e lo illude sempre con l’armonia e l’incantesimo della parola”.(6)
Chiudo, per non sottrarmi al confronto, con una mia composizione, dal titolo significativo, Alla parola:

La parola sorse
da crateri di luce
e creò un mondo sradicato
dal proprio principio, fino
alla fine dei tempi irripetibile.
Ma tu ascolta
solo la parola che scaturisce
dalle fenditure del tempo
e trapela dai circuiti del silenzio
nel medesimo fremito celando
carne e polvere.

………………………….
NOTE

1. Pseudo-Longino, Il Sublime, 17.3 (a cura di G. Lombardo, postfazione di H. Bloom), Palermo, Aesthetica editrice, 1987, p. 48.
2. Cf. 1 Re, 19, 11 – 12
3. ibid., 19,13
4. Pseudo-Longino, cit., 35.3, p. 60
5. P. B. Shelley, Epipsychidion, vv. 588 – 590
6. U. Foscolo, Opere, Tomo III, a cura di F. Gavazzeni, Milano, Classici Ricciardi-Mondadori. 1996, p. 1288.

Da La parola innamorata. I poeti nuovi 1976 -1978 (a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro, Milano, Feltrinelli, 1978) :

La curva dell’avvoltoio
è cruda sulla mappa della notte:
l’energia si assapora nell’andarivieni
tra bagliori;
senza rabbrividire
gli occhi non vengono percorsi
dalle frontiere gelatinose delle ulcere
e dei morsi;
conosci l’arte
di morire nel retto di una rosa?



Non sempre il sangue ha colore feroce
quando l’ago entra nella cicatrice
cancellando la pioggia
e lo squarcio nel mare in marcia.
Nel petto slacciato sugli occhi alla
terminazione delle
stelle, l’incisione divora le rughe.
All’incrociarsi delle ossa sulla
superficie in fuga si
sgroviglia di pietra e di pula nel
vuoto sotto la penultima riga.

lunedì 23 novembre 2009




Centro Suolo, via G. B. Morgagni 35, Milano, inaugurato il 1° febbraio 1969

Il Centro “per la ricerca e la diffusione della poesia avanzata” visse tre anni per volontà di Ugo Carrega, Tomaso Kemeny, Raffaele Perrotta, Antonio Agriesti, Alfonso Galasso, Giustino Gasbarri e Michele Marangoni. Tra le altre azioni vi è stato organizzato un “Omaggio a Ezra Pound”(30 ottobre - 10 novembre 1969) in ricorrenza dell’84mo compleanno (esposizione opere, con la collaborazione di Vanni Scheiwiller, iconografie, audizione Cantos letti da E.P., proiezione di documentari). In un momento in cui occuparsi di poesia veniva percepito come attività patetica, simile alla raccolta di cartoline obsolete, il Centro, in sintonia con centri similari a Brescia (Centro “la comune”), Firenze (Centro “téchne”), Roma (Centro “uscita”), New York (“Place for something else”), Parigi (“agentzia”), si sforzò a diffondere una cultura “nuova, anzi antica” in prospettiva della poesia. Si ricorda una serie di 6 slogan:
a noi interessa che qui al nostro centro si parli e che si possa parlare liberamente di poesia;
a noi interessa stimolare l’interesse verso la poesia;
a noi interessa che i problemi della realtà vengano fuori dalla poesia;
a noi interessa stimolare alla lettura, alla visione, alla audizione, alla creazione di poesia;
a noi interessa allargare l’idea stessa di poesia;
a noi interessa fare sapere che la poesia non è morta.

Qui si pensava che l’editoria autogestita (clandestina) fosse l’unica forma di circolazione libera ed autentica. Ugo Carrega da tempo gestiva le edizioni tool, edizioni per la diffusione della poesia simbiotica, visuale e avanzata; mentre dal febbraio del 1969 si ebbero le edizioni periplo per iniziativa di Raffale Perrotta. Qui il 1° maggio del 1970 si dedicò una serata alla Fame nel Mondo; nell’occasione i magnifici 7 del Centro Suolo si sedettero a una tavola pantagruelescamente imbandita, e divorarono 20 portate succulente, innaffiate con vini selezionati, lasciando a digiuno e a gola secca il pubblico convenuto per significare l’ipocrisia criminale celata dietro istituzioni tardo colonialiste. La delicata provocazione fu dedicata a 20 tipi di ipocriti “agli ipocriti fatali, agli ipocriti da torchio, agli ipocriti babbei, agli ipocriti indefessi, agli ipocriti bolscevichi, agli ipocriti borghesi, agli ipocriti papisti e riformati, agli ipocriti da rebus, agli ipocriti epatici, agli ipocriti da panico, agli ipocriti padronali, agli ipocriti talmudici, agli ipocriti eroici, agli ipocriti aulici, agli ipocriti esemplari, agli ipocriti predestinati, agli ipocriti da Conclave, agli ipocriti volgari, agli ipocriti predoni, nonché agli ipocriti da Festival dei Popoli”.


Da Suspense extensive o intensive (il periplo, Milano, 1969):

“Il mare davanti a me, perché dirlo?
La spuma passa sui ciottoli che germogliano
nel vento. So che ostento
l’aria di chi viene da lontano
o che torna dove nessuno lo ricorda.
Non ho un dialetto da spartire con te, amico,
solo questa bottiglia di birra e allora dico che questo mare
-il vapore dell’alba lo inzucchera-
è la pianura col vento che fischia nei comignoli
negati dal beccheggio di quella nave,
ma le onde riflettono
la chimera d’oro nei campi di grano.
Ho paura di morire come questo ratto schiacciato
da un autotreno, come questo uccello
senza nome che cercava la primavera,
perché solo la velocità sembra che conti,
la mia lingua,
la mia origine, tutto ciò non ha un significato.
-C’è rimasto così tanto da amare,
il fuoco scoppietta e fascia il profumo dei pini nevosi.
Col dizionario internazionale in tasca, dico
in tutte queste lingue indoeuropee
i ciottoli e le conchiglie,
vicine tempeste di neve mi coprono la fronte.
Su una roccia boccheggia un pesce,
nella mia testa urta contro le strette
pareti dell’acquario,
le scaglie del mare mi abbagliano dietro gli
occhiali da sole,
da mille anni boccheggia e non riesce a morire.”



Quando (composto alla morte di André Breton, il 28, IX, 1966, edizioni tool, Milano, 1970):
Versi scritti alla morte di André Breton

…scavando nel marmo
alcune sillabe e i loro faz
zoletti d’oltretomba per latrare
che è tutto finito ma siccome
mento ne vedremo ancora delle belle
indosso il tuo segreto sbocciato
nell’eden senza divieti della scrit
PAROLE INCAUTE REGISTRATE NEL VERBALE
tura automatica (si distenebra
il tuo nome in decomposizione
nel vortice delle continue meta
morfosi) ti si attorciglia al collo
come cravatta funebre
maldestro
pirata
e tu sventoli ancora il seme
surreale in tutti i suoi arco
baleni
principe paria rovina
to a rate
le radici delle tue
vene s’inargentano nella favola
inarrestabile delle generazioni
rincasano dalla polvere le tuemani bionde nella carezza della
magia totale
…………………………………………………………………………………………….

nelle foglie sicure da ogni fischio nessuno vuole più essere (diventare) un Autore
si pubblica per cercare nella scintilla l’uomo e la donna che si incontrino nell’eden
gli occhi incendiati dall’estate
nella nostra bocca il mistero si caria
ricopro il mio corpo di erba e di spinaci
e dal pus si leva il geranio che corroderà le bandiere
colorate
alzandole nel nero
del rischio inutile
(l’uso delle parentesi permetterà forse di mitigare lo slancio fiducioso verso le affermazioni più euforiche)
io sono il vegetale delirante che addita l’Abitudine come il figlio degenere della Responsabilità
mai abbastanza crocifissa nella fraction collective du langage

ogni atto
costerà più caro della vita
ogni attimo
ha come posta l’esistenza intera

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e avere come radice la voglia di cambiare la nostra vita da oggi stesso
cambiare questa pallina di moccio
e non volere cambiare ORA
significa essere nella cerchia delle burocrazie necrofile

“Chi cancellerà le caricature perverse dei rivoluzionari bestiali?”

(produttori di poesie su scatole di fiammiferi e su conserve di pelati
sorbiranno i nostri cervelli con cannucce
e noi in cambio nasconderemo le nostre vecchie abitudini criminali)
quasi meglio essere dei
vermissaux rampants sur la terre
(dei Swedenborgh
dei William Blake)

L’ALDIQUA esige il rito dell’esplosione totale:
il nostro corpo è il nostro castello

……………………………………………………………………………………………

unica misura la terra che ci contiene
sulle palme pesanti croci di mosch
ee e fumosi vichinghi là l’Oceano è p
uro come la mano di André come farò a
dimenticare il suono della sua voce co
me farò a parlargli quando vorrò (?) le
domande sono giuochi di spade che tag
liano la gola all’eroe/antieroe che v
orrebbe uscire dalla conchiglia per e
ntrare nella storia sui tavolini dei bar
battono i denti i bicchieri di rum ra
bbrividisce l’oppio antico nei piatti s
i fa luce e dallo specchio scendono g
iovani senza denaro vorranno da me la
mia bocca la mia voce perché io dica
per tutti che è finita la macabra sto
ria degli usurpati dell’eden mi dico
no che è venuta la loro ora di cherubi
ni il fuoco fiorisce tra le mie dita
il gelo chiama nelle mie vene la grande
estate amorosa ronzano sotto la sfera
di cristallo delle biblioteche i moto
ri allegri delle primavere

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Il foglio (secco come un indù) bianco
è la finestra aperta sulla rugiada
della mia immaginazione:
le parole ‘dentro’ muoiono
e vivo nelle cose.
Il mio pensiero


è Acqua


è la corrente trasparente del silenzio,
la mandorla spianata che si sprigiona
dal suo involucro naturale e
si traspone in forme simultanee
per volatilizzarsi nella concretezza.

……………………………………………………………………………………………

la turgidezza del sesso occidentale decresce in una fontana di sperma grafico
non basta una fontana in ristampa per annoverarsi fra i grandi seduttori della storia
corrono le piccole formiche a versare il proprio sangue nella vasca comune
i pesci rifiutano di flirtare con le cloache
gli uccelli negano il proprio volo alle pattumiere sfondate
i cappelli a visiera affondati sulla fronte
gli ultimi proletari comprano bigliettini da visita
per impostare il proprio saluto ai supermarket


con un braccio liberai la scrivania dai libri. mi stesi nudo sul patibolo. il boia era in vacanza e così potei aspettare che la rugiada deponesse la sua tovaglia di campanule e di api sulla pianura. un serpente solare affondò la coda nelle acque inquiete

……………………………………………………………………………………………

quando avrà un nome l’arresto del vortice
prodigioso
quando avrà sangue il mare d’argento
quando la morte saprà chi ha portato via nelle
sue ceste incestuose
allora nudo come un albero correrò nel vento
per sapere dove porta la via inesistente
per rispondere alla sfinge il nonsenso dell’esistenza
per tacere ai piccoli confessori di miserie
il mio contegno di erede di fallimenti
(ho scagliato nella forra la mia corona di ferro
e prigioniero di un orizzonte infernale
so che la mia vita è la più breve)
quando il colore dei tuoi occhi sarà il nulla
quando le grandi speranze saranno imbalsamate come i cammelli
quando il rumore dei tuoi passi
romperà l’esilio dell’uccello di fuoco
quando sulle strade il tuo nome sarà la vittoria
allora potrò venire anch’io con la mia
vanità di ripetente
l’aldiqua sarà una rosa disserrata a festa
e non ci sarà bisogno di ricordi per sentirci eterni
la conchiglia misteriosa da sempre cercata
avrà per lo sguardo indiscreto dell’uomo
la sua perla in metamorfosi perpetua
quando le parole avranno un’eco nei cuori
quando la neve sarà un bosco in fiore
quando
quando gli occhi delle ragazze
porteranno in vasi di porcellana i loro fragili
fianchi
quando i bambini mentiranno per uccidere dio
quando i ciechi sentiranno cantare il buio
quando la proprietà privata sarà un’orrida leggenda
quando il marchese Sade verrà a piantare
la sua bandiera sulle prigioni
quando Aragon avrà tinto di nero la sua bandiera
rossa
quando Bunuel filmerà il s. padre crocifisso
al banco della simonia celeste
quando Max Ernst dipingerà per tutti le sue
visioni dettati dall’estasi
quando Eluard avrà finalmente ragione
quando Tzara non dovrà più mendicare aggressioni
quando Tanguy Peret Crevel Char Jacques V. Picabia
e gli altri ragazzi
firmeranno il manifesto della rivoluzione indolore
quando la canaglia che fa professione rivoluzionaria saprà salutare la bellezza
facendo predominare il principio del piacere sul principio della realtà
quando non ci sarà più bisogno di rimpiangere André










giovedì 19 novembre 2009

Il Libro dell’Angelo (Milano, Guanda, Fenice Contemporanea, 1991)

Dalla presentazione di Giuseppe Conte (in quarta di copertina): “Il Libro dell’Angelo di Tomaso Kemeny non è soltanto una raccolta di poesie, ma un vero e proprio poema sognato per frammenti in instancabile movimento, tutto implosioni e vortici…Dove l’epifania dell’Angelo è la Donna, il Corpo d’Amore, leggiamo i versi più sorprendenti, versi in cui i fianchi femminili si presentano ora come ‘culla’, ora come ‘tomba’, e Kemeny pare filtrare attraverso Breton l’ossessione amorosa di Petrarca e di Tasso. Kemeny, lo studioso di Coleridge e di Dylan Thomas, il poeta dolcemente clownesco del Guanto del sicario, quell’Angelo l’ha incontrato davvero. Ne è venuto fuori un libro nuovo e ‘ispirato’, dove si compenetrano modernità e tradizione, grazia e sublime, linguaggio e anima.”

mercoledì 18 novembre 2009

Caino, un canovaccio in Teatro 1 a cura di Eugenio Miccini ( in“quaderni” di Techne – n.5, Firenze, marzo 1970).

Il mito della “Morte di Dio” ispirò a T. Kemeny il “canovaccio”; vergato nel dicembre del 1968 fu portato in scena nelle province nell’inverno-primavera del 1969 dal gruppo il Periplo. La pièce coinvolse attivamente gli attori-personaggi (Abele - A. Agriesti, il Regista - A. Galasso, Caino - T. Kemeny, l’Eterno – Dio -R. Perrotta, il Maestro Concertatore del Pubblico - G. Gasbarri, il Pubblico - i presenti in sala) e il Pubblico. Ogni rappresentazione fu unica-irripetibile. Invarianti solo lo slogan declamato dal Regista “Contro il logorio della settimana corta, bevete acqua fresca” e l’accoltellamento dell’Eterno da parte di Caino.

lunedì 16 novembre 2009


Don Giovanni innamorato (Es, Biblioteca dell’eros, Milano, 2003)


Giuseppe Conte da "Un Don Giovanni ‘Porno’ e lirico", il Giornale, 13 aprile 2003:

“Credo che possa venire salutata come un vero e proprio caso letterario la pubblicazione del primo romanzo di Tomaso Kemeny. Sinora l’autore si era applicato con risultati di prim’ordine alla poesia, alla traduzione e alla critica letteraria come grande anglista, docente all’Università di Pavia. Il Kemeny poeta ha attraversato diverse fasi procedendo coerentemente da presupposti legati al Surrealismo verso esiti di rilevante presa lirica, metaforica e visionaria, mettendo via via a fuoco una sua poetica del Sublime e della Bellezza, e dando un contributo generoso alla nascita del movimento Mitomodernista. In questo romanzo il linguaggio è crudo, e sfiora quello del genere porno. Il lettore si prepari a un cibo molto piccante, a un cocktail molto alcolico: c’è una vera orgia di termini gergali della sfera sessuale. A mio parere è stata una scelta coraggiosa e franca. Ne viene sottolineata la dirompente forza comica, ma non so come non parodistica. Don Giovanni, come forse l’autore, e come forse qualcuno di noi, è convinto che la lussuria sia il più bel dono di Dio. Alla fine però il registro cambia. Attraverso il regno oscuro della carne separata dallo spirito, del coito separato dall’amore, Don Giovanni scopre il potere sublimante dell’innamoramento. Dopo essere stato il Don Giovanni gaudente e falstaffiano, capace di ogni astuta laidezza, diventa il Don Giovanni innamorato del titolo. Nelle pagine del suo diario anche il registro stilistico cambia: e vi troviamo tracce di un lirismo sublime. La metamorfosi finale di Don Giovanni è una sorpresa che non voglio svelare, connessa con l’enigma del rapporto tra arte, il sesso e il grande amore. Io ho riso a crepapelle leggendo le prime cento pagine di questo libro. Poi ho avuto un soprassalto: il finale getta una luce nuova su tutto. E si capisce che Tomaso Kemeny, l’aristocratico trasnsilvano, il poeta, il mitomodernista ci ha messo di fronte a una allegoria che, parlandoci di eros, ci parla del più profondo, angoscioso e felice mistero della nostra esistenza.
Da La rima non scalda (Dialogo libri, Como, 2000)

“ Mi accende?”

“Sono un legionario inattuale
dell’immaginazione creatrice.”
“Mi accende?” rispose la sconosciuta
-labbra tumide celebrarono baci
a varcare la soglia dell’incanto.
Fianchi da amatrice reclamarono
un letto imperiale. Sotto la maglia
estiva il respiro innalzò
il prodigio di seni donativi.
“Per te nulla esiste oltre il seno?”
Chiese, poi, fatale bloccandomi il respiro.
“no, non esiste”, risposi e accesi
la sigaretta a chi in quella notte
lontana m’incenerì il cuore.
Da Se il mondo non finisce (1980 – 2003) (I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2002, con illustrazioni di Loredana Cerveglieri):

“Ninna-nanna del porco mondo
la mia vita t’appartiene
e si trasforma di colpo
in un incubo a cinque stelle…
Ma chi cavalcherà la tempesta
alla testa dei giovani, dei vecchi, dei decrepiti?
Chi disgregherà lo smercio dei ritmi
spenti? Chi ruggirà
la gioia di vivere?
Chi suggerà la luce
dalle poppe stellate
della notte sconfinata?”


La Parola

La parola sorse
da crateri di luce
e creò un mondo sradicato
dal proprio principio, fino
alla fine dei tempi irripetibile.
Ma tu ascolta
solo la parola che scaturisce
dalle fenditure del tempo
e trapela dai circuiti del silenzio
nel medesimo fremito celando
carne e polvere.
….

Urlando Sodoma

Nota biografica: “Mi pare di ricordare che mi sono sempre affidato a un poemetto o a un poema, sospendendo le mie abituali composizioni liriche, ogni volta che un lutto o un evento doloroso o straordinario mi ha privato del mio ritmo espressivo “naturale”. Il primo poemetto fu 28 settembre 1966, scritto in occasione della morte di André Breton, che ebbi occasione di conoscere, testo che si conclude significativamente con i versi “…quando coloro che fanno professione rivoluzionaria/ sapranno salutare la bellezza”. Il secondo poemetto, da cui si citerà immediatamente, fu composto quando un’amica incinta soffrì un trauma cranico seguito da aborto dopo la sua partecipazione a una dimostrazione non autorizzata a Milano (una sinfonia per manganello e botte da orbi).”

Da Urlando Sodoma (E. R. Sampietro editore, underground per una editoria contro capitalistica, Bologna 1971):

“…ma quando l’alba fagocitò
il tempio l’ostetrica trovò il cantaro intarsiato
grondante di sangue oh rugiada del suo grembo
raschiato da mille megere…”
Da Suspense extensive o intensive (Milano, Il periplo, 1969)

“………
-C’è rimasto così tanto da amare,
il fuoco scoppietta e fascia il profumo dei pini innevati.
Col dizionario internazionale in tasca, dico
in tutte queste lingue indoeuropee
i ciottoli e le conchiglie,
vicine tempeste di neve mi coprono la fronte.
Su una roccia boccheggia un pesce,
nella mia testa urta contro le strette
pareti dell’acquario,
le scaglie del mare mi abbagliano dietro gli
occhiali da sole,
da mille anni boccheggia e non riesce a morire.”
Da Eterna Disarmonia (Signum edizioni d’arte, 101, con sette disegni di Mauro Staccioli, Milano, 2002), Visioni profane sorte durante la contemplazione della restaurata “Maestà” di Simone Martini.

“ a Mademoiselle D.
Su richiesta del Petrarca, Simone Martini
ritrasse Laura ad Avignone nel 1336
(si vedano i Sonetti 77 e 78 del Canzoniere)

Simone, che a ritrarre la Vergine
nella corte celeste incoronata
fosti decisivo e che per carpire
l’immagine di Laura
in Paradiso innalzasti lo stilo,
dipingi le grazie dell’amore mio
nei gorghi della disarmonia
dove l’anima terrena ti spazia”
Da Desparecidos, vidas robadas, vite rubate (Millelire stampa alternativa, Roma, 2002)

“…Non sapeva nulla della vita
né mi vide sulla fronte
la prima stella nera
nata dalla disperazione.
Mi spezzò due dita
e dalla bocca mi germogliarono
fiamme e le mie mani
volarono – colombe rosse
in direzione del sole…”
Da Sei Poesie (Firenze, Chegai ed., 1959)

Per un soldato

“Morì combattendo
nel suo corpo
congelato
caldo
era il piombo nemico.
Un commilitone
gli tolse
l’orologio,
un altro
le scarpe,
lo ricoprì la neve,
la patria
guardava
altrove.”

sabato 14 novembre 2009

Da Recitativi in rosso porpora (Udine, Campanotto, 1989) :

“(silenziosamente antica
irta di bulbi
coperti di squame gotiche)

l’ortodossia è come la polizia / tempo di tango

:se ti mette le mani addosso
passi prima del tramonto
come inno che risuona tra cripte e
ossari

salgo le scale scendo le scale
apro la porta chiudo la porta
entro nella stanza esco dalla stanza

(perché non c’è mostruosità
che io non conosca
come del resto tu sai benissimo
Oscar Kokoschka)

Commento di Stefano Lanuzza (Paese Sera, Mercoledì 7 giugno, 1989):

“Kemeny, studioso tra l’altro di Lewis Carroll, James Joyce e Dylan Thomas si conferma, ormai, come poeta importante, con una poesia che nasce per frammenti e illuminazioni interiori, per voci mentali, spesso dialogiche, di cui le sue liriche paiono libero sviluppo.”
Dall’Almanacco dello Specchio, 12, a cura di Marco Forti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1986. Due sequenze poetiche “Il nome inciso” e “Ragazza che si stende”:

“Poesia superflua e obsoleta
cancella il nome inciso.
Sfuma la distanza dalla lapide.
Dalla rosa che abbaglia si levano
ali nere nella bruma. Farfalla
si posa nivea sul dorso
invisibile all’obiettivo e allo
stormo stridente sulla spuma.”


“Se ti stendi per perforare i cieli
l’azzurro vede con i tuoi occhi.
Il fuoco sorge tra spine di ghiaccio
quando un prato di piume dilata
il letto senza scampo. Se mi prendi
schegge
di cristallo moltiplicano il lampo.”

Commento di Giuliano Gramigna: “…l’ilarità, dunque, si presenta come un dato da cui partire per le suites che vengono presentate qui. Ma è l’abilità di cambiare le carte in tavola che mi sembra la qualità più autentica di un poeta come Kemeny, arrivato a maturazione; dono non appena del preconscio, ma addirittura dell’inconscio.”
Qualità di tempo (Società di Poesia – Guanda, Milano, 1981):

“L’eternità è un concetto cupo
brutta copia dell’attimo che ancora
ci separa; se il nostro respiro
ostenta il sorgere della prima
luce in pieno giorno,
il tuo corpo senza fondo arresta
le mie mille vite slabbrate che
scorrono in te verso
l’eclisse totale del mondo.”

“Dalla culla tenebrosa sbocca un
oceano di rasoi. Si ribalta
la figurazione scabra che sventra
la galassia. Si squarcia la cornice
consunta che ostenta la notte
odorosa. Nessuno ti ravvisa
nell’amplesso che dissotterra gli astri.”

Commento di Stefano Agosti (in quarta di copertina): “…la violenza dei temi non sarà altro che metafora supplementare e cumulativa della violenza operata nel testo, il quale si esibisce nel complesso e straordinario esperimento che si presenta compattissimo. La violenza che abita la struttura del testo si sposa infatti a una fisiologia del finito e, al limite, del levigato; in una parola a quella che Mallarmé definiva, materialmente, ‘la musica’…”

venerdì 13 novembre 2009

The Hired Killer’s Glove – Il Guanto del Sicario (Out of London Press, New York 1976, testo italiano tradotto dall’autore):

“la mano macella non solo la rima,
acconcia la carta al godimento, se i ricordi
scottano la penna mascherando l’orgasmo
restituito nel gocciolone alla carta sorbente;
arrivano le nuotatrici col disordine organizzato
secondo gli accenti annodati nell’occhio;
il verso sbarrato non riproduce le mammelle
attraverso il risucchio acquisito sul foglio”

Dal saggio di Nanni Cagnone, Il guanto del sicario (Marcatre, Enneesse ed, Roma, 2 agosto, 1976)

“Il meraviglioso è già stato. Si proviene appunto da qui, con totale mancanza di innocenza, andando attraverso sospiri alle inadempienze del senso. Nella poesia di Kemeny, il corpo repertoriale, accademico, scrocca incantesimi alla goffaggine del luogo comune, espone sontuose feste in biblioteca, sprofonda dal sonno nei fatti con finto stupore, si aggira perplesso in luttuosi musei simbolici e cita l’eros offrendogli specchi senza ritegno…Sulla soglia lampeggiante dell’onirico, Kemeny intrattiene un melodramma voluttuoso, grande tenore alle prese con l’insana proverbialità - colpi di tosse e scricchiolii - e l’inesorabile splendore del genere poetico… Kemeny rivela per accanite maschere la perversa semanticità del reale, mentre per la sua riluttante visione dispiega un enorme apparato scenico ma subito in funzione astrattiva, rendendone elusiva la verosomiglianza.”

Da Roberto Carifi “T. Kemeny, lo sguardo nell’abisso” in Il gesto di Callicle, saggio sulla nuova poesia, Milano, Società di Poesia, 1982:

“Per parlare del lavoro poetico di Tomaso Kemeny occorre partire da quella raccolta indimenticabile che è Il guanto del sicario (New York, 1976), un’opera che, oltre a rappresentare un momento decisivo nel panorama della nuova poesia, si presenta fortemente indicativa di temi e contenuti di cui gli ultimi testi di Kemeny costituiscono un coerente sviluppo…Il decentramento dell’Io che abbiamo indicato come un fenomeno generalizzato della nuova poesia, diviene in Kemeny il gesto che assegna ad un fondo senza fondo la matrice abissale di una soggettività esposta alla violenza del precipizio. È qui sui bordi del “non pensiero” che il soggetto del cogito, il soggetto cartesiano, vacilla: si fa “vacante”, avrebbe detto Artaud, vuoto, come il lacaniano non-réalisé, e forse vagante, nomadica erranza ai bordi del Discorso…Il viaggio erotico si manifesta come tragico-gioioso affondare nell’eccesso di una notte dove il naufragio del nome proprio è anche epifania dello straniante, fino allo stordimento…come in Bataille e Artaud la crepa del femminile è il nero che domanda di venire attraversato per approdare al mistero, all’alchimia della notte…e la ricerca dell’Uno-Tutto è anche la consapevolezza che l’Angelo sia metafora di un’impossibile ricongiunzione all’Altro, ma anche la spietata e crudele apologia dello spossessamento, della consunzione delle eterne categorie di soggetto e oggetto e l’eros diviene la follia di una discesa empedoclea nel cratere al femminile…”

T. Kemeny già il 27 maggio del 1982 ha indicato come oggetto ultimo e primo della ricerca “la bellezza”. Si veda “Residui di esperienza: il concetto di bellezza”( in L’Altro Versante, rivista di poetica e di poesia, Rimini, Maggioli Editore, 1982): “È vero che Platone afferma che i poeti sanno di non sapere, cosa che non accade ai filosofi…ma la ricerca in sé e per sé mi pare che possa diventare un alibi per l’inconcludenza, oggi. È ovvio, l’attività di ricerca è implicita a qualsiasi risultato artistico. Ma non si regredisca al gioco infantile della “ricerca per la ricerca”, dove non conta l’oggetto che si insegue, ma si è devoti all’inseguimento istituzionalizzato…Brutalmente, chi ricerca senza “sentire” il fantasma di ciò che gli manca e/o manca al mondo, con maggior profitto potrebbe dedicarsi alle parole incrociate. I “poeti” di qualche valore tendono a lavorare sul Testo che desiderano leggere per intero, ma che nessuno è stato ancora in grado di rendere compiuto. Ciò che è necessario cercare, necessario come l’aria, l’acqua e la terra e il fuoco è “la bellezza”. La tradizione “deviante” delle avanguardie storiche e delle neo-avanguardie, ci lascia un’eredità di tale e evidente e incompiuta bellezza (“tempora mutantur,et nos mutamur in illis”), che non c’è più tempo da perdere…

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giovedì 12 novembre 2009


Melody (Marcos y Marcos, Milano, 1997):


“ ‘Hanno portato puttane ad Eleusi’
canta il miglior fabbro turbato
dalla pestilenza che
disgrega lingua, tempio e focolare.
La donna più bella, svenduta,
nella notte che precipita
cerca il sole.”

Dalla recensione di Giuseppe Conte,”Il magico Kemeny”, il Giornale, 17 luglio, 1997 :
“C’è il canto delle origini in Kemeny, una continua spinta aurorale: la consapevolezza della crisi, del ‘lutto di una civiltà intera’, come quella occidentale, non può cancellare la grazia di una voce di bimba che invoca “la luna troppo bella e sola”. L’archetipo di una bambina astrale e quello della Musa ricorrono frequenti…Un palpito teogonico passa nei suoi versi del tutto laici, intrisi di pagana pietà naturale…Ma come dimenticare Kemeny in divisa da ufficiale napoleonico che invoca le Muse sul sagrato di Santa Croce occupata, il 1° ottobre del 1994? Come dimenticare il suo gesto a un mesto e dignitoso convegno di poeti a Milano, quel suo pugnale sguainato non a ferire qualcuno, ma a strappare il velo della menzogna e della rinuncia? Chi è stato alla sua celebrazione di un rito in onore della primavera sulle rive del Ticino, nel marzo del 1995, mi ha raccontato di averne ricevuto una spinta di energia magica nuova, tale da cambiare un’esistenza…L’uomo non libresco, il mago cantore, il dolcissimo compagno d’armi è anche dotto, uno che traduce da tante lingue: ed ecco nel libro traduzioni dal greco, dal latino, dall’inglese, dal francese, dallo spagnolo, dall’ungherese , come una dichiarazione d’amore e di poetica ecco Tirteo, Ovidio, Marlowe e Byron, Breton e Dylan Thomas, la sua limpida tradizione personale. Kemeny, d’origine ungherese, fa anche atto d’omaggio a Ady Endre, Kosztolànyi, Jozef Attila, Szkàrosi Endre…”

Desirée (Lietocolle libri, Faloppio, 2001, p.14):

“Ventiquattro demoni spadroneggiano
nella casa cremisi dell’amore:
suoniamo la tuba anche spettinati
appassionatamente appaiati
(si gode tanto da venire sfrattati).
A ogni tua mossa…una scossa,
a ogni tuo bacio divento più macho;
in un sottomarino facciamo mattino.
Se fai l’ironica ti prendo
in una cabina telefonica;
se si scatena il temporale
lo facciamo anche nella cattedrale;
ma se la voglia sale
va bene anche il canile municipale.
Ventiquattro demoni spadroneggiano
nella casa cremisi dell’amore:
vieni, attacca l’amo alla lenza,
senza di te
la vita è solamente penitenza.

La Transilvania liberata (Effigie, Milano, 2005)

Dalla recensione di Enzo di Mauro, il Manifesto, 16 luglio 2005:
“I traffici devoti che Kemeny intrattiene col mito e col Sublime, qui si intrecciano con millimetrica precisione alla concreta evocazione di quadri spalmati di cupo realismo e di squarci metropolitani, contrassegnati da una pronuncia civile, da un timbro morale. Tuttavia, coloro i quali ricordano per privilegio d’età i primi anni settanta a Milano e la fluida, passione naturale di animatore culturale e di irresistibile performer che lo vide attivissimo (insieme a Nanni Cagnone) nei locali della galleria d’arte “Il Mercato del Sale” di Ugo Carrega, possono sempre nutrire la loro memoria guardando la contro copertina del libro, dove troveranno Tomaso Kemeny in divisa da ufficiale napoleonico. Dolente e felice, questo poeta appartato e vestito di gloria rammenta con ostinazione e fedeltà come non fu vano, una volta e sempre, il suo giovanile incontro con André Breton. Sul lungomare di Nizza, mi pare, se l’incombente vecchiaia non m’inganna.”
Dal saggio di Cesare Segre La Transilvania liberata dalla poesia (Strumenti critici,
113, Bologna, il Mulino, Anno XXII, Gennaio 2007, Fascicolo 1):

“… il poema muove tra un passato mitico, con le sue divinità, i suoi eroi, i suoi simbolismi e il passato storico, giungendo fino alla storia recente. Individuare una linea espositiva coerente sarebbe impossibile, dato che le grandezze in gioco (mondo dei guerrieri antichi,, mondo dei miti, visioni astrologiche, incarnazioni sovratemporali, scene di attualità, profezie) stanno su piani molto diversi, e l’originalità del poema sta proprio nel continuo slittare tra un piano e l’altro; come nei sogni.”

Le avventure della Bellezza


Le avventure della bellezza 1988 – 2008 (Arcipelago ed. Milano,2009.)

Dalla recensione di Beppe Benvenuto, Corriere della Sera, 11, X, 2009:

Kemeny: Bellezza in cerca di avventure
“Contro il dilagare dell’effimero alla fine degli anni Ottanta un gruppo di artisti, studiosi e letterati, proclama in un manifesto il primato della “bellezza”, attraverso 19 Tesi. La sfida suonava come una provocazione; oggi , invece, molte di quelle idee appaiono quasi scontate e Le avventure della bellezza parla di un combattimento ancora in corso. Gli avversari di sempre non sono usciti di scena, anzi possono contare su importanti solidarietà, essendo figure note. E’ il caso di “procedimenti scandalistici” di Cattelan o il tentativo di screditare “il genio titanico e sublime di Ludwig van Beethoven” da parte di Baricco. Il libro registra, anche grazie a un numero elevato di contributi, un dibattito culturale che, dopo un ventennio, è ancora capace di suscitare polemiche.”

La morte è un'altra cosa


La morte è un’altra cosa (Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 16):


“Senza speranza e senza paura
oltre il gran Nihil il viandante
cammina sulle acque del Bosforo
e vede tutto per folgori
e quando la luce tornerà alla luce sente che
tutto il potere sarà della poesia dell’esistenza finalmente
anche per l’impossibilità innata di venire a patti con la vita…”

martedì 10 novembre 2009

Tomaso Kemeny, poeta in rivolta trentennale contro la Tirannia del Brutto contemporaneo: grido di battaglia cosmopolita “Fight for Beauty!”, “Combatti per la Bellezza!”. Ultima azione poetica a Gorizia, il 7 novembre, nel contesto della Festa della cultura Ex Border ideata da Alberto Princis. Traccia dell’azione le 11 Tesi per rendere alla poesia la città di Gorizia :
1) Rovinarsi per la poesia è un privilegio.
2) Non è vero che nessuno riesca a vivere all’altezza dei propri sogni.
3) Se la filosofia ha l’onore dell’ultima parola, la poesia ha il dovere della prima.
4) La nostra meta porta oltre le origini: la parola poetica può tracciare sentieri ignoti.
5) Il discorso poetico produce verità in prospettiva della bellezza.
6) La forma della poesia non è vestito, ma è corpo.
7) Un’opera bella ci indica come potrebbe essere il mondo, apre le vie all’utopia.
8) La poesia offre una visione globale, contro la frammentazione del mondo globalizzato.
9) La poesia segnala la posizione dell’uomo nel cosmo.
10) Se non cede alle follie della ragione, la poesia riscatta il linguaggio dalle degenerazioni della comunicazione.
11) Con Dio è morto l’individuo, l’essere umano indivisibile, dando via libera ai trasformisti di professione. Chi crede nel mito in poesia, può rinascere come individuo.