domenica 19 maggio 2013

Intervista a Tomaso Kemeny

Intervista a Tomaso Kemeny “Vuole aspettare il caffè, o comincio subito a tormentarla?” Così comincia la mia intervista a Tomaso Kemeny, poeta italiano di origine ungherese, tra i fondatori del movimento internazionale mitomodernista e della “Casa della Poesia” di Milano. Tra le sue opere di poesia ricordiamo Il libro dell’angelo, Melody, Desirée, La Transilvania liberata, Poemetto gastronomico e altri nutrimenti. Sara: “No no, cominci subito, essere tormentata da lei è un piacere.” Tomaso Kemeny: “Ormai sono venticinque anni che è cominciata questa cosa del mitomodernismo, ma io ho una certa fedeltà, allora ho scritto un nuovo manifesto, che leggerò anche domenica 12 maggio a Palazzo Marino, in cui ho voluto riassumere sette principi, poi mi chieda pure, ne parliamo. 1) La poesia è energia di ricominciamento: immer wieder. Immer wieder me l’ha detto Pound nel ’69, quando nel Centro Suolo, quando tutti pensavano che la poesia fosse una cosa reazionaria (che stravaganza! I maoisti…), io e Ugo Carrega, grande poeta visuale, abbiamo festeggiato il compleanno di Pound, non per la sua ideologia ma perché è il più grande poeta epico, e lui che dopo un decennio di manicomio non era in grado di parlare, è venuto, ha sorriso e ha detto soltanto: “immer wieder”, che vuol dire “sempre di nuovo”. Per lui voleva dire che nonostante guerre, distruzioni, c’è sempre il bello, mentre io pensavo che al di là delle disgrazie storiche, la poesia è sempre energia di ricominciamento. La poesia è sempre un’apertura utopica per me, l’apertura di modi di vedere il futuro, non come i poeti che si piangono addosso (anche se anche quella forma può essere significativa…). 2) La poesia manifesta un ritmo analogo alle vibrazioni che il nostro corpo ha in comune con la luna, il sole, la terra e le altre stelle. (Dice Dante: “Amor che move il sole e le altre stelle”). Basta con la poesia appicciata al nostro piccolo ego, all’infelicità individuale, storica e intellettuale, basta con l’incapacità di amare tutto senza chiedere niente. Cioè l’unico modo di amare è amare tutto senza chiedere niente, senza interesse, è il fondo morale della poesia. 3) In un mondo taroccato per borse, orologi, nasi, seni, ma anche per opere d’arte, legittimate dai media solo per il loro prezzo di vendita. La bellezza non è solo nostalgia di un’armonia perduta, ma è energia metamorfica, una tensione ideale e simbolica all’origine dell’esistenza autentica, una tensione che spinge a realizzare nel mondo un’utopia estetica che è anche moralità profonda. Oggi tutti si sciacquano la bocca con la bellezza, dicono che è una cosa reazionaria… son tutti pazzi, il brutto è la parola d’ordine: se un’opera d’arte è brutta è perché contesta, ora anche se è brutto ed è fatto bene è sempre bello, no? Anche domenica ero invitato a casa di un grande poeta, che mi fa: “mi sai dire il nome di un grande poeta di oggi, uno solo?”. Questi sono quelli che io chiamo “gli allegri becchini”, mentre io penso che si debba vedere quello che c’è, non quello che non c’è. Ultimamente la civiltà si piange addosso, senza stare attenta ai giovani talenti. Per concludere come diceva Márai, il grande romanziere ungherese, i grandi poeti, come Rimbaud, Villon, Baudelaire, sono sempre stati considerati dei disgraziati, mentre quelli che erano considerati grandi poeti erano una banda di arrivisti. La poesia non è là dove viene celebrata, ma là dove funziona. Ci sono anche dei grandissimi che sono compromessi, come Virgilio, sottomesso ad Augusto, mentre Ovidio che era un po’ ribelle è andato in esilio, ma sono entrambi grandi. Questo per dire che non è la moralità che fa il bello, però il bello fa la moralità, cioè le cose belle sono vere. 4) Il mito non è pensiero selvaggio, come pensano gli antropologi, o copertura ideologica di connotazione reazionaria, ma al di là dell’opposizione del razionale con l’irrazionale è irruzione del sacro nel tempo storico, la sua energia metamorfica permette nuove avventure per l’immaginazione. Nel ’90 ero stato invitato dal grande filosofo Perniola di Roma a un congresso sul neoantico. Lì c’era un signore della Nigeria che diceva che Afrodite era loro, allora io fatto notare che la dea della bellezza e dell’amore c’è in tutte le culture, perché è un archetipo. L’etnocentrismo fa le guerre di razza, invece il mito unisce le nostre origini. Naturalmente non il mito ripetitivo, neoclassico, ma il mito reinventato. Oltre il bello e il mito, secondo me è importantissima la categoria estetica del sublime, perché è lì che nasce l’esigenza della libertà individuale, quella che ci spaventa: chi sono io? Questo è un sentimento sublime, per i religiosi è un rapporto con Dio, per chi non ci crede è un rapporto col nulla, tragico, in ogni caso è un rapporto complicato e pauroso. 5) Il sublime nasce dall’esigenza di libertà individuale ed esige che ciò che si vive sia bello e buono. Sopra e sotto la miseria del probabile linguistico si concretizza sia nel rifiuto della dialettica dell’oltrepassamento, e allora il sublime destruttura il brutto istituzionalizzato, il kitsch tecnologico mercificato nell’orrido, nel tremendo, nel ributtante, nel mostruoso. Oppure si realizza oltre la miseria comunicativa esaltando serie di contenuti-visioni irriducibili a una grammatica che non sia immaginaria, spalancando finestre sull’ignoto oltre i confini dell’immaginato. C’è moltissima produzione sublime in questo tempo, che è molto sotto il brutto, e quello è valido, perché apre nella coscienza una specie di tremore, di paura di noi stessi, di quello che potremmo essere e speriamo di non essere e delle nostre paure. Dal mio punto di vista si deve cercare di andare verso la poesia sublime elevata o si deve andare molto sotto, come ho tentato di fare in “La morte è un’altra cosa”, volutamente orrendo. 6) Il pensiero etnocentrico rivendica i valori del corpo per confermare la molteplicità irriducibile ad un’unità indifferenziata dei testi, dei corpi, delle culture (contro la globalizzazione), preservando il carattere dei singoli corpi etnici, culturali e sociali, radicando la terra a un centro fisso nel mondo. Il pensiero mitico invece è circolare, ci unisce, riporta a un’origine comune, a una fratellanza primigenia. È giusto sentirsi “nato a Milano”, l’importante è non arrivare a pensare che gli altri non valgano niente, come fanno alcuni italiani, o certi parigini o certi argentini (“noi abbiamo il tango e voi no”)… gli etnocentrici sono ovunque. Ma è anche sbagliato non essere per niente etnocentrici, bisogna amare la propria tradizione integrandola col mito. 7) Il mito è il racconto del sogno che l’universo fa di se stesso attraverso il nostro linguaggio. Questa è la religione mitomodernista, è un po’ una pazzia, pensare che la poesia in qualche modo è la messa in parola delle vibrazioni cosmiche, basti pensare al “Mi illumino di immenso” di Ungaretti. È un’unione col cosmo, come potrebbe essere con la persona amata o con l’altra parte di noi stessi, quella “alta”. Sara: “Nella sua poesia “A Leopardi” lei dice “mi sento l’unico/ a vivere ancora la vita in bellezza”. Cosa vuol dire per lei oggi vivere in bellezza, e banalmente… come fa?” Io ho sempre pensato alla bellezza, anche quando nel ’68 c’erano le riunioni “contro la realtà” dell’epoca, a cui partecipavano addirittura dei futuri brigatisti, che però giocavano alla rivoluzione come gli Arcadi giocavano a fare gli dei. Quando in un’occasione gliel’ho fatto notare, mi hanno quasi picchiato, dicendo che la bellezza è cosa da aristocratici. Ma per me è quasi un fatto biografico, anche appena arrivato a Firenze con la mia famiglia, dopo essere dovuti fuggire dall’Ungheria durante il regime comunista, siamo subito andati, senza beni, come in pellegrinaggio, alla casa di Michelangelo. Questo per dire che anche nella mia famiglia c’è sempre stato un grande culto della bellezza e dell’arte, che io ho continuato a coltivare. Ho imparato l’italiano e scoperto Petrarca, Tasso, Foscolo (Dante mi piace, ma è troppo grande per me): Tasso invece è stato un maestro, non per i contenuti ma per la musica della sua poesia. L’altro è il grande Foscolo: se io fossi un professore del ministero obbligherei tutti a leggere Le Grazie, come se fosse la Bibbia degli italiani. Mi piace quando dice che la terra è sotto la protezione di Afrodite, che, presa da pietà per gli uomini che non sono mai migliorati, ha avuto tre figlie, le tre Grazie. Lei pensi che, quando la violenza carnale era all’ordine del giorno, ai tempi di Shakespeare, le dame inglesi portavano il petrarchino nella scollatura. Petrarca da questo punto di vista è stato un vero rivoluzionario: uno che ha dedicato il Canzoniere a una donna e che per una donna ha scritto i versi più sublimi, quando dice “morte bella parea nel suo bel viso”, anche se il suo volto era divorato dalla peste. Ci dice che Laura sconfigge la morte: come nel cristianesimo Cristo sconfigge la morte, Petrarca osa dire che è l’amore a sconfiggerla. Sono Dante e Petrarca a insegnarci che è la donna ci unisce all’universo. Insomma, le dame inglesi si portavano dietro questi dieci sonetti di Petrarca e li facevano leggere al giovanotto preso dalla passione… così nacque il corteggiamento. Lei mi chiede della bellezza. Io vivo completamente nella bellezza, anche nei piccoli gesti: poi tento di scrivere, sapendo di non esserne all’altezza, ma senza invidia. Secondo me la religione della bellezza è come essere davanti a un altare: ci sono tante candele, quelle grandi, quelle piccole, ma fanno un unico splendore. Non provo invidia davanti a un grande poeta, ma mi sento felice. Io amo la bellezza non soggettiva, ma ovunque essa si trovi, perché è così rara. Quando dicevo che il bello non dev’essere un oggetto perduto nella casa del desiderio, intendevo dire che il bello non è solo del passato ma anche del futuro, fa parte dell’umano. Per concludere io direi che la bellezza è riguadagnare l’onirico. Il sogno e la veglia sono separati, ma tramite la pratica poetica (in particolare con maestri come i surrealisti) uno riesce a unirli. Il praticare la bellezza, cioè leggere la poesia ma anche fruire la musica, la danza, la pittura, tutte queste cose trasformano la tua anima bestiale in un’anima più cosmica, in cui non sei più cittadino dove sei nato o dove ti hanno accettato, ma sei cittadino dell’universo. Mi sento, come diceva Foscolo, figlio di Afrodite: come se la mia anima fosse nata lì. Sara: “Mi vuole parlare di come ha vissuto Milano in questi anni, dei luoghi che ha amato particolarmente?” Su Milano si possono dire tante cose, io ho insegnato a Pavia e ho amato molto il Ticino, ma essendo una trippa lirica (come mi chiamava Breton, perché mi commovevo sempre) amo i luoghi in cui vivo, per cui amo molto Milano, ma non tutta. Quello che non amo è come dopo la guerra, per la speculazione edilizia, hanno costruito delle case popolari orrende (mentre le case popolari, al di là dei motivi economici, dovrebbero essere le più belle, se si ama il popolo). La mia è una visione un po’ ideologica, ma come si possono amare quelle parti di città che non rispettano i poveracci? Chi ci vive non può far altro che abbrutire. Così come ora stanno costruendo i grattacieli in Porta Garibaldi, che sarebbero belli, ma non lo sono perché non sono disposti armonicamente. Invece ci sono luoghi magnifici come il Duomo, Piazza della Scala, San Babila… Ad esempio in San Babila c’è quella bellissima chiesa romanica, che però non contrasta con il funzionalismo fascista. Insomma, Milano porta le rughe del tempo, ma alcune rughe non ci saranno mai, perché la bellezza non invecchia. Mi piaceva molto anche San Siro, c’era un pubblico unico al mondo, che applaudiva l’avversario, ma già negli anni ’60 ha iniziato a declinare, e dagli anni ’80 ho smesso di andare. Altri luoghi che amo di Milano sono sicuramente la Scala, il Piccolo Teatro, i musei… E poi la cucina! L’ossobuco, la cassoeula… E poi il milanese tipico, che ha poche parole ma molte idee e sentimenti. A due di loro, miei grandi amici e persone eccezionali, ho scritto delle poesie: Roberto Guiducci e Mario Spinella. Qui si conclude la mia intervista a Tomaso Kemeny. In realtà è stata una lunga e intensissima conversazione che per motivi di spazio non posso trascrivere interamente. Mentre ci salutiamo però mi presta il libro di “Poetica mente Milano”, in cui trovo una sua poesia su Via Ozanam, via del suo primo amore con una ragazza emiliana, suo primo vero incontro con la nostra città. In Via Ozanam Tomaso Kemeny Vivevi in un villaggio non fortificato, in una borgata di coloni senza paura. Distinta per statura e leggiadrìa fosti tra tutte la prima a colorire il mio nome forestiero di inflessioni lombarde. “Stabile è il vero, ma la parola bugiarda non dura”, mi dicesti con la voglia di ridere dei nevai, una cicatrice minuscola sulla fronte di monella di colpo uscita dalle smanie dell’infanzia. Solo questo rimane della città della mia memoria, una cameretta linda in via Ozanam dove di sola nebbia vestita, tra guglie di cattedrali e i Navigli illuminati a festa, col calore del tuo corpo corredasti per me una tenera dimora. Lesta mi cingesti i lombi a tenaglia, vertiginoso il metrò percorse la tua bionda maglia di capelli lunghissimi cresciuti prima che le tue labbra di ragazza sospirassero brevi parolette di donna. Inventasti di profilo orari in espansione illimitata, guizzando come pesce di sangue caldo nel diluvio dell’adolescenza. Appeso forse per sempre all’amo all’improvviso mi abbandonasti, ma nel vento che oscura le vie convulse della metropoli, il tuo corpo acerbo lampeggia e pulsa per dissolversi nella cadenza arcaica di ogni inflessione, divinamente lombarda. E quando la nebbia copre i Navigli e la periferia, rivedo la cicatrice minuscola, cifra del primo amore, segreta nell’acciaio e nella pietra della Milano che si fa adulta. ∆ a cura di Sara West ∆

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